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Viaggio nel deserto di un padre armeno alla ricerca delle figlie


Dinanzi a un racconto romanzesco dal finale catartico la cui cosa più emozionante sono i grandi paesaggi in campo lungo, non possiamo impedirci di considerare il film "Il padre" un’occasione mancata




di Roberto Nepoti

Approfondimenti

Sfiorato da Elia Kazan nel Ribelle dell’Anatolia, il tema dell’oppressione turca sul popolo armeno è stato poco frequentato sia dalla storia ufficiale che dal cinema. Nel 2002 il regista armeno Atom Egoyan raccontò per via indiretta il genocidio subito dal suo popolo in Ararat, dove un cineasta preparava un film sul terribile episodio. Ora quel film c’è e lo ha diretto il regista di origine turca, ma tedesco per nascita, Fatih Akin, noto al pubblico per il premiato "La sposa turca" e il gentile Soul Kitchen . Lo ha realizzato con una mega-coproduzione internazionale, il concorso in sceneggiatura di Mardik Martin (screenwriter di Martin Scorsese), l’ottima direzione della fotografia di Rainer Klausmann e Tahar Rahim ( Il profeta) come protagonista. Eppure tutto questo ha prodotto un film, nel complesso, deludente. Il soggetto racconta (un po’ come accadeva nella Masseria delle allodole dei fratelli Taviani) una storia privata sullo sfondo della Storia con la maiuscola.

In Anatolia la polizia turca rastrella gli armeni di religione cristiana perché combattano sul fronte della prima guerra mondiale (in realtà per condurli ai lavori forzati). Tra loro c’è il giovane fabbro Nazaret Manoogian, padre di due bambine. Tra il 1915 e il ’16, il governo dei Giovani Turchi compie il genocidio degli armeni. Nazaret vi sfugge e, saputo che le sue figlie sono vive, va alla loro ricerca dai deserti della Siria a Cuba, fino al Nord Dakota.

Ci sono varie metafore nel Padre, a partire dal titolo originale: "The cut", con allusione al crudele «taglio» delle vite operato dalla strage, ma anche a quello della gola del protagonista, il cui mutismo è chiaramente simbolico. Però l’aspetto predominante è da kolossal vecchio stile: il genere di film che «si racconta da sé» cancellando la presenza dell’autore, il quale si nasconde dietro ai personaggi e agli eventi senza lasciare tracce di uno stile.

Detto in modo più radicale, pur non essendo male Il padre manca di uno «sguardo», della visione in grado di riscattare con un grande film tanti anni di colpevole oblio. Qualcuno, quando è stato presentato in concorso alla Mostra di Venezia, ha tirato fuori il classicismo di David Lean: di cui, però, il film non ha ereditato che in minima parte la potenza e il respiro epico, traducendoli invece in termini accademici.

Dopo una parte iniziale intensamente drammatica, quella del massacro, il film si articola in un dilatato road-movie non privo di lungaggini e di parti fiacche. Un percorso melodrammatico fatto d’incontri cattivi e buoni, spesso appartenenti al repertorio dei «luoghi obbligati» del mélo, lungo il quale lo spettatore è tenuto a condividere, contro tutte le probabilità, la speranza che ha Nazaret di potersi ricongiungere con le figlie. Però tutto ciò è gestito, più che come una grande saga storico- familiare, secondo le modalità un po’ ricattatorie del melodramma. E peggio va le volte in cui Akin si lascia andare a scene oniriche, stridenti col tono neutro del resto. Sappiamo che il regista si è attirato le inimicizie dei turchi negazionisti della strage; e non abbiamo dubbi sulla sincerità delle sue intenzioni. E tuttavia, dinanzi a un racconto romanzesco dal finale catartico la cui cosa più emozionante sono i grandi paesaggi in campo lungo, non possiamo impedirci di considerare il film un’occasione mancata.

(09-04-2015)

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