I DIFENSORI |
Scritto da Alberto Rossetto | |
sabato 12 agosto 2006 | |
Dopo aver cercato di riportare alla cronaca i più rappresentativi portieri della storia juventina e, nell'occasione di scusiamo di non aver citato Perrucchetti ed Amoretti, probabilmente ricadremo ancora in simili omissioni, ma, nella centenaria vita bianconera sarebbero talmente tanti i nomi da riportare che inevitabilmente si incappa in qualche dimenticanza. Magari, dopo aver scorazzato in lungo e in largo nell'organigramma bianconero potremmo dedicare un numero monografico di questa rubrica ai grandi… dimenticati.
In questa seconda analisi prenderemo in considerazione i grandi difensori, a cominciare dal trio che contribuì alla vittoria dello scudetto del 1905: Armano, Mazzia e Goccione. Carlo Bigatto rappresenta invece la prima "bandiera" della storia juventina, infatti gioca in prima squadra dal 1913 fino al 1930: in pratica prende in consegna la squadra dei fondatori e l'accompagna fino all'alba del grande quinquennio, attraverso lo scudetto del 1926! Nelle foto dell'epoca è ritratto con il suo caratteristico copricapo, un caschetto con due paraorecchie che, insieme a due baffoni da tricheco, gli davano un aspetto davvero truce, utile a spaventare in campo gli avversari. In realtà Bigatto fu un giocatore finissimo per quanto non lesinasse l'arte dello sgambetto, mai però mirato al danno fisico. E pensare che aveva iniziato come centravanti, ruolo mantenuto fino al primo conflitto mondiale, dopodiché, trasformatosi in centr'half (lo stopper di una volta), usa il suo intuito da attaccante per segnare numerose reti. Prezioso fu anche il suo intuito nel segnalare alla società i fratelli Marchi e nel convincere un giovanissimo Combi a trasformarsi da ala sinistra in portiere. Dicono che arrivasse a fumare oltre cento sigarette al giorno, volle sempre essere fedele al suo spirito dilettantesco e rifiutò uno stipendio fisso anche a fine carriera, quando già giocava con professionisti come Rosetta, non sopportava di legare la sua passione juventina al vile denaro. Anche per questa scelta di vita poteva permettersi il lusso di fumare a piacimento, chi avrebbe trovato il coraggio di multarlo? Antonio Bruna ed Osvaldo Novo diedero il via alla tradizionale coppia di terzini di ferro che sarebbe diventata una caratteristica della Juventus. Il primo era uno stilista del calcio, maniaco del perfezionismo, tanto che la sua figura fu presa a modello per i manifesti con i quali la Juventus annnunciava sui muri delle case l'incontro casalingo. Novo, al contrario, basava tutto sul suo stile fisico ed impetuoso e per un abitudine molto in voga all'epoca scendeva in campo con una retina in testa per tenere a posto i capelli. Bruna e Novo tennero a battesimo Giampiero Combi a difesa della porta bianconera e rappresentarono il primo grande trio di difensori, a cui seguì la famosa linea Combi-Rosetta-Caligaris. La linea mediana di quegli anni Venti era formata dai fratelli Pio e Guido Marchi, come detto scoperti da Bigatto nei cortili polverosi dell'oratorio S.Giuseppe di Torino. Pio, il più vecchio, era detto "velivolo" per via dei paraorecchi che gli svolazzavano ai lati della testa durante le sue incursioni nell'area avversaria; "biscutin" era invece il soprannome che accompagnava il fratello Guido che, a dispetto del suo aspetto gracile, era forte e tenace come un toro. Ai due fratelli Marchi fu intitolato uno dei campi di allenamento adiacenti al Comunale, dove per moltissimi anni, generazioni di bianconeri calcarono la scena, dalla prima squadra fino ai pulcini.
Virginio Rosetta si può a ragione definirlo il primo professionista del calcio italiano ed il suo trasferimento alla Juventus dalla Pro Vercelli caratterizzò clamorosamente il campionato 1923-24, mutandone completamente i risultati.
Umberto Caligaris, classe 1901 da Casale Monferrato morì sul campo nell'ottobre del 1940 accanto al suo compagno Rosetta durante una partita di "vecchie glorie" con indosso la maglia bianconera. Luigi Bertolini rappresenta il tipico "settepolmoni" del campo, in pratica "una vita da mediano" iniziata a suon di reti nel Savona. Proprio quelle reti convinsero i dirigenti dell'Alessandria ad acquistarlo che, siccome il calcio di allora non arricchiva quasi nessuno, promisero al giocatore anche un impiego, cosa che non si avverò mai. Bertolini si adattò ad una vita di sacrifici, fece lo strillone ed il riparatore di biciclette, con la conseguenza che la sua dieta alimentare si ridusse al caffelatte, visto che di bistecche non se parlava proprio ed in più doveva provvedere in proprio all'attrezzatura da gioco. Finalmente riuscì a conquistare il posto da titolare durante un'amichevole tra Alessandria e Torino dove venne schierato mediano in seguito ad un'emergenza e da quel ruolo non si staccò più. I dirigenti juventini si accorsero in fretta di quel "motorino" in mezzo al campo che recuperava palloni su palloni e non si lasciarono scappare l'occasione di tesserarlo. All'Alessandria venne versata la cospicua cifra di 180.000 lire: a Bertolini, secondo regola, non andò neppure un centesimo, ma il dirigente Mazzonis gli anticipò lo stipendio di agosto che di norma restava fuori dal contratto (la stagione andava da settembre a luglio) e che il giocatore, con un'autentica "botta di vita" si spese quasi completamente con le donnine di Alassio, finalmente a pancia piena.
Luisito Monti, ovvero il "centromediano che cammina", altro pilastro della difesa della Juve del quinquennio. Arrivò in Italia già trentenne, sull'onda dei fasti delle Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam, ma quando aveva già interrotto l'attività agonistica e si dedicava al lavoro di pastaio.
Già, Nini Varglien II, 358 partite in bianconero dicono già tutto di questo mediano dall'aspetto sgraziato ma dal carattere coriaceo ed indomito frutto della terra istriana, un'avventura cominciata nel settembre del 1930 contro la Pro Patria nel mitico campo di corso Marsiglia, con il fratello Mario formò un'accoppiata formidabile. Seppure considerato il meno dotato tecnicamente fu proprio Varglien I a debuttare per primo da titolare, proveniente dalla Pro Patria, da dove si portò appresso la famiglia ed il fratello Giovanni, detto Nini; due fratelli, due giocatori, completamente diversi nel fisico e nel carattere, Mario più squadrato nel fisico, Nini con un caratterino niente male.
Se Varglien II fu schierato in tutte le posizioni difensive, Piero Magni indossò tutti, ma proprio tutti, i numeri di maglia; potrebbe quindi essere nominato in qualunque ruolo, noi lo ricordiamo come difensore perché buona parte delle 106 presenze toccate con la maglia della Juve le ebbe a giocare con il reparto arretrato. Anzi, una volta a Trieste, causa l'indisponibilità contemporanea di Sentimenti IV e di Peruchetti giocò addirittura in porta e l'incontro terminò 1-1. Tornando indietro di qualche anno ecco Alfredo Foni che da rincalzo di Rosetta divenne campione del mondo ed a sua volta formò un altro celebre trio insieme a Combi e Rava. Foni venne acquistato dal Padova appunto come rincalzo di Rosetta e Caligaris e spesso quindi fece coppia prima con uno poi con l'altro, fino a divenire titolare e stabilire due eccellenti primati: 229 partite consecutive, dal 2 giugno 1935 al 31 gennaio 1943, (superato solo dal suo conterraneo Zoff) e nessuna espulsione a carico. Calciatore dallo stile molto compassato e temporeggiatore, ebbe, a modo suo, la sfortuna di arrivare alla Juve negli anni grigi che seguirono il famoso quinquennio; dopo lo scudetto del 1935 le uniche vittorie vennero dalla Coppa Italia. In compenso con la Nazionale vinse un'Olimpiade ed un Campionato del Mondo. Come concluse l'attività di calciatore Foni si cimentò come allenatore, vinse due scudetti con l'Inter ed arrivò anche a sedersi sulla panchina azzurra. Si è spento a Lugano, dove risiedeva, nel 1985.
Piero Rava era il figlio del capostazione di Porta Susa, la seconda stazione torinese, ed abitava proprio a ridosso dello stadio di corso Marsiglia, per cui diventare tifoso juventino fu quasi una conseguenza. Giocando sul campo del Dopolavoro Ferroviario venne notato dal dirigente Maccagno che si occupava delle squadre minori; colpiva molto anche la foga con cui Rava partecipava al gioco, foga che, dopo poche battute di gioco conferiva al viso di Pierone un colore infuocato.
Carlo Parola approdò al calcio dopo un buon passato giovanile nel ciclismo, ma quando si cita Parola automaticamente lo si associa alla rovesciata divenuta famosa in tutto il mondo, gesto che anche la Panini immortalò nelle famose bustine di "figu". Successe durante un Italia-Austria a S.Siro, Parola, vistosi superare dal centravanti Epp, si alzò in volo e lanciò le gambe al cielo rinviando al volo la sfera.
Sergio Manente da Udine ha rappresentato forse il primo terzino moderno, alla Cabrini per intenderci, capace non solo di difendere, ma anche di offendere, cosa che dagli allenatori di allora non era ben vista perché volevano solo terzini marcatori. Comunque sia rimane alla Juve ben sette anni, anzi nell'ultima stagione si esalta, segnando ben dieci reti e contribuendo agli scudetti del 1950 e del 1952 e dove per anni in ritiro divide la stanza con Boniperti divenendone intimo amico. |
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