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l'intervista

Licio Gelli: "La P2
non c'entra con
la morte di Moro"

Incontriamo un gioviale e allegro Licio Gelli, nel suo salottino privato, a Villa Wanda, ad Arezzo, dopo un po' d'attesa nell'altro salotto più grande che per ragioni di tattica logistica ci impedisce la visuale dell'ospite che ci ha preceduto. È raggiante, ha firmato un consistente contratto con la Sony Pictures per realizzare un film sulla sua vita.

Licio Gelli «Il regista sarà Olivier Dahan - dice Gelli - , francese che vive a Los Angeles e che ha fatto di recente un film sulla vita di Edith Piaf. La sceneggiatura di David Black e gli interpreti George Clooney, che farà me da giovane, e Stanley Tucci». Abbiamo avuto occasione di dare un'occhiata alle prime stesure della sceneggiatura: si parte dalla giovinezza, il giovane volontario Licio Gommina - nome di battaglia, che aderisce minorenne alla guerra di Spagna come fervente anticomunista. Poi via via tutte le note e meno note traversie che narrate dallo sceneggiatore, vengono poi puntualmente corrette da Gelli stesso. «Continuerò a controllare il tutto fino a film concluso, a partire dall'incontro previsto fra due settimane, qui ad Arezzo con Gorge Clooney, l'interprete che dal trucco però, viste le foto inviatemi dal produttore, assomiglia di più al fondatore dell'Opus Dei, Balaguer De Escrivà...».


Ma in effetti Lei è il clone di Escrivà. In certe foto avete anche la stessa montatura degli occhiali!


«Clooney forse è più bello, ma in quanto a seduzione anch'io ancora oggi ci so fare. Gli americani sono pedanti, hanno subito voluto dialogare con il mio avvocato per i dettagli contrattuali, ho riletto il tutto, proponendo alcune varianti al fine di non immettere fantasie lesive per me e per altri...».


Come è venuto in mente alla Sony di fare un film Kolossal su Licio Gelli?


«Tutto nasce dalla lunga intervista da me rilasciata un anno fa alla Cnn, la mia vita è piaciuta a qualcuno a Los Angeles...».


Non è facile controllare che una Major dall'idea, dal soggetto proposto a loro da un regista, fino alla fine delle riprese, rispetti una sceneggiatura, tutto cambia nel percorso.


«Questo me lo sta dicendo Lei, forse ci vorrà qualcuno di fiducia che segua passo per passo il tutto fino a montaggio finito».


Torniamo indietro nel tempo, sono parti del film... Nel 1971 l'assistente di Giovanni Leone le chiede di appoggiare la sua elezione a presidente della Repubblica. Quale fu esattamente il suo ruolo?


«L'avvocato Venturi, assistente del senatore Leone mi invitò nel suo ufficio in viale Cristoforo Colombo e chiese l'aiuto della massoneria. Disse di aver saputo che potevo contare su centoquaranta fra senatori e deputati. Leone mi piaceva e assicurai la disponibilità a fornire il nostro appoggio. Lo confermai anche a lui, inviandogli una lettera il giorno prima delle elezioni, auspicando che tutto andasse per il meglio. Tutti i parlamentari iscritti alla P2 o comunque vicini alla Loggia votarono per Leone, che infatti andò al Quirinale forte di 518 voti contro i 408 di Nenni, i 6 di Pertini e i 25 dispersi. L'avvocato Venturi non tardò a ringraziarmi per tutto questo, anche a nome del neopresidente. Più tardi ricevetti una lettera di convocazione al Colle. Il 10 aprile 1972 ebbi anche un incontro privato con Leone, presente pure Lino Salvini. Il capo dello Stato mi invitò a tenermi in costante contatto col suo segretario personale, il dottor Nino Valentino. Successivamente, sarei stato regolarmente invitato in ogni occasione ufficiale, specie se c'erano ospiti internazionali. A volte mi faceva recapitare gli inviti qui ad Arezzo dal corriere motociclista. Inoltre fu a me che Leone chiese un suggerimento per una svolta nella politica del Paese ed è così che ho iniziato a lavorare allo Schema R. Il "Piano R" comunque, l'abbiamo scritto in due, Randolfo Pacciardi e io, poi Leone non mantenne una condotta coerente e lineare, la storia ci ha tramandato il resto del suo destino».


Francesco Cossiga, nel 1993, definì la P2 «la risposta in termini sbagliati e occulti ai timori dei circoli atlantici che l'alleanza DC-Pci allontanasse l'Italia dalla Nato».


«No, la P2 non era questo. Certo non eravamo comunisti e in un'epoca in cui il Pci era fortissimo la nostra presenza faceva comodo ad alcuni ambienti. Non eravamo, però, una struttura occulta. Perché dell'esistenza della P2 si parlava sui giornali, io stesso rilasciavo interviste e chiunque fosse stato interessato a contattarmi avrebbe potuto avere il mio numero di telefono o prendere un appuntamento all'Excelsior. La loggia era riservata, non occulta.


Cossiga ha detto anche: «La P2 è d'importazione americana; non c'è dubbio che Gelli non fosse il vero capo della Loggia... Il capo era un referente che metteva nei posti chiave i generali filoamericani».


«Mi meraviglia che Cossiga abbia detto questo: perché mi conosceva e perché lui stesso ha dichiarato che gli sono stato utile. Non a caso è stato lui che ha voluto conoscere me».


Cossiga, nel Dvd de «Il Tempo» uscito in occasione dell'anniversario della morte di Moro, ha detto che lo scandalo della P2 fu frutto di un'operazione di disinformazione del Kgb per decapitare i vertici dei servizi segreti italiani. È così?


(Gelli non risponde. Si limita a sorridere con aria complice. E il suo silenzio suona come una conferma).


La storia del delitto Moro è intrecciata con quella della P2. Si è a lungo ipotizzato un ruolo della loggia nei 55 giorni del sequestro, concluso con l'uccisione dell'ostaggio. Questo soprattutto per la presenza di uomini della P2 ai vertici dei servizi di sicurezza che conducevano le indagini e dei cosiddetti comitati - per la gestione della crisi - creati al Viminale dall'allora ministro dell'Interno Cossiga.


«In quel periodo, tutte le persone o quasi avessero alti incarichi nello Stato erano iscritte alla loggia. Non era la P2 a inquinare il Viminale: il comitato tecnico operativo presieduto da Cossiga era fatto di professionisti qualificatissimi e per questo si era ritrovato composto in buona parte di persone che erano nella loggia. Senza neppure - ne sono certo - sapere l'uno dell'altro, fatta salva qualche piccola eccezione. Spesso risultavano anche in contrasto tra loro. Succedeva anche nella P2, che raggruppava esponenti di partiti diversi: dai democristiani ai socialisti. Avevamo persino un comunista. Uno solo, però, un po' "sui generis"».


Se buona parte degli uomini che componevano il comitato erano iscritti alla loggia come non sospettare un inquinamento piduista delle indagini sul sequestro?


«Nessuno era tenuto a farmi rapporto. Certo mentirei se sostenessi che non chiedevo quali fossero le novità sul caso. Ma nessuno sapeva nulla di rilevante. Posso garantire che anche le persone più in alto brancolavano nel buio».


Quegli uomini, però, l'avranno informata delle ipotesi che si facevano largo come delle strategie tentate per arrivare alla prigione brigatista o alla liberazione, attraverso una trattativa con i terroristi, dell'ostaggio. Lei era il Venerabile...


«C'erano molti uomini, è vero. Umberto Federico D'Amato, responsabile dell'Ufficio affari riservati del Viminale, il questore Giovanni Fanelli che lavorava per la stessa struttura. E tra gli esperti ingaggiati da Cossiga anche il prefetto Fernando Gruccione e lo psichiatra Franco Ferracuti. Persone validissime. Eppure io non ho saputo mai molto di più di quanto veniva pubblicato dai giornali. Della prigione di Moro, il covo di via Montalcini, sono convinto sia stata utilizzata solo in una fase. È ingenuo pensare che l'ostaggio sia stato tenuto lì tutti e 55 i giorni. Forse gli stessi interrogatori, quelli alla base del Memoriale, si erano tenuti altrove».


Durante la prigionia, Moro parla anche della avvilente vicenda Italcasse. Dello scandalo che coinvolgeva il clan andreottiano, si stava occupando prima di morire anche Pecorelli: «Ai primi dell'anno verrà fuori chi ha preso gli assegni», era scritto in un appunto trovato dopo il suo omicidio. Vuole anche pubblicare l'intera vicenda su "OP", sotto il titolo «Gli assegni del presidente». Per impedirlo verrà invitato a una cena nel circolo romano Famija Piemonteisa, con il magistrato Claudio Vitalone, Carlo Adriano Testi, componente del Csm e il generale Donato lo Prete. Pensa che fosse da cercare nei risvolti di questa vicenda la chiave del giallo Pecorelli?


«Non posso dirlo. Ho saputo che quel famoso servizio sull'Italcasse non uscì mai perché a Pecorelli erano stati fatti arrivare dei contributi. C'era stato l'intervento di Franco Evangelisti. Mino aveva sempre il problema dei conti da saldare, di far fronte alle spese della tipografia...».


Il 20 marzo 1979 Mino Pecorelli viene ucciso con quattro colpi di pistola. Primo indiziato come mandante dell'omicidio sarà proprio lei.


«Assurdo. L'accusa nasceva da un teorema. Deduzioni senza uno straccio di prova. Venni prosciolto il 15 gennaio 1991».


Pecorelli era venuto in possesso di una copia del famoso rapporto Cominform, una vecchia relazione del Sifar di Firenze che accusava lei di esser stato un informatore dei servizi segreti dell'Est. Sembra che volesse anche pubblicarla sulla rivista...


«Aveva il vizio di ricattare la gente, ma con me non l'avrebbe fatto. Aveva voluto entrare nella P2 mi frequentava. Guardi che Mino era una brava persona...».


Come era nata quella vecchia informativa? Leggo il ritratto che di lei veniva tracciato: - Il nominativo segnalato è uno dei più pericolosi elementi che operano nella zona 8° alle dirette dipendenze del Partito comunista (...) ha tutte le prerogative classiche per esplicare le mansioni che gli sono state affidate per conto dei rossi (...) Veste elegantemente con un soprabito marrone a doppio petto (6 bottoni) porta sempre sciarpa di seta sopra il soprabito color blu a fiori leggermente pallidi, cravatta chiara, giacca marrone e pantaloni lunghi di uguale colore (...) Il Gelli spende somme di denaro notevoli in cose del tutto superflue (...) circa 10.000 lire al giorno e non è possibile capacitarsi della fonte di tale reddito.


«Se vuole un mio commento, riconosco solo la descrizione del mio modo di vestire».


Si sarà chiesto chi poteva aver voluto la morte di Pecorelli...


«Se fossi stato io a coordinare le indagini sul delitto, avrei preso tutti i numeri di "OP" usciti nei due anni precedenti e mi sarei messo ad analizzarli. In particolare avrei selezionato i nomi dei personaggi e delle vicende presi di mira. Sarei stato ben attento a notare anche gli eventuali cambiamenti di atteggiamento di Pecorelli verso questa o quella persona nel corso del tempo. Un'analisi attenta. Nome per nome, notizia per notizia. Sono sicuro che il movente dell'omicidio, e di conseguenza il mandante sarebbe saltato fuori».


Calvi è stato ucciso?


«Non so chi è stato. Ma la logica insegna che chi si vuole suicidare non si mette dei mattoni nelle tasche...».


Ma oggi quale è la su vita, a parte il film?


«Finalmente, in occasione della festività di Sant'Ambrogio, e anche del compleanno di Roberto Calvi, il 7 dicembre, non certo grazie alla collaborazione della terza Sezione della Corte d'Appello di Milano e della Procura Generale, ma per la tenace e instancabile attività dell'avvocato Gianfranco Lenzini, legale dei piccoli azionisti del Banco Ambrosiano, è stato trovato in Svizzera il provvedimento della Corte d'Appello di Milano con il quale, il deposito di 8,5 milioni di dollari sequestratomi sulla UBS di Ginevra dalla Magistratura milanese nel 1982, veniva assegnato alle parti civili dei piccoli azionisti. Dopo lunghe indagini difensive c'è un fascicolo penale aperto dal Pubblico Ministero, il dottor Francesco Greco, a seguito di una denuncia-querela presentata ben sette anni fa, dallo stesso avvocato Lenzini, dopo aver chiesto invano, per ben tre volte, con vari incidenti di esecuzione la ricerca del documento che era, pensi, scomparso dagli atti della cancelleria. È riuscito così, tramite l'Ambasciata italiana a Berna, a farlo riacquisire agli atti. Il documento è inequivocabile: il deposito di 8,5 milioni di dollari, su parere conforme del Sostituto Procuratore Generale dottor Armando Perrone, doveva essere restituito ai piccoli azionisti, uniche parti civili dopo la revoca della costituzione di parte civile della Liquidazione del Banco Ambrosiano Spa che aveva concluso un accordo segreto a Lugano. Purtroppo, dopo la scomparsa del documento, la Procura Generale di Milano, ha cambiato parere, e ha sostenuto che i soldi dovevano andare in banche estere, in base a una sentenza del Tribunale Penale cantonale di Lugano del 26 febbraio 1996, che assegnava altri miei fondi alle banche estere del Banco Ambrosiano, ma non gli 8,5 milioni di dollari».


Lenzini ha spiegato che la Procura Generale ha difeso la sua tesi, fatta propria dalla 3a Sezione Penale della Corte d'Appello nei 3 incidenti di esecuzione promossi dai piccoli azionisti, facendo leva sul fatto che i piccoli azionisti non erano parte civile del processo svizzero di Lugano e, che quindi, i soldi dovevano andare soltanto alle parti civili, le Banche consociate estere del banco Ambrosiano, di quel processo e non di quello di Milano. Ora, il ritrovamento del provvedimento della seconda sezione Penale della Corte d'Appello di Milano del 3 giugno '96 ha completamente sbugiardato la tesi della Procura Generale e della terza Sezione Penale della Corte d'Appello. Comunque su di Lei presto avremo occasione di riflettere in maniera esauriente: lo storico della massoneria Aldo Mola da tempo rilegge e corregge con lei le bozze di 900 pagine di biografia, e si spera che prima e non poi il libro venga alla luce.


«Caro signore, c'è un momento in cui chi ti cerca ti trova, hai voglia ad iscriverti a Logge e fare liste, oppure a travestirti o creare reti di amicizie e protezioni nel mondo, chi ti cerca con la carta del destino in tasca ti trova sempre, dovunque...».
 

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Marco Dolcetta

20/10/2008

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