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11:39 - domenica 21 settembre 2008


Orfeo, L’

di Claudio Monteverdi (1567-1643)

libretto di Alessandro Striggio

Favola in musica in cinque atti

Prima:
Mantova, Palazzo Ducale, 24 febbraio 1607

Personaggi:
la Musica (S); due pastori (S, T); una ninfa (S); Orfeo (T); Euridice (S); Silvia, messaggera (S); la Speranza (S); Caronte (B); Proserpina (S); Plutone (B); tre spiriti (T, T, B); Eco (T); Apollo (T); ninfe, pastori, spiriti, coro

Primo esempio di opera in musica apparso a Mantova, L’Orfeo deve la sua nascita a un’iniziativa del principe ereditario Francesco Gonzaga. Da neppure un decennio, specie a Firenze, si andavano sperimentando esempi di teatro tutto cantato: quelle prove avevano avuto una vasta risonanza nell’ottobre 1600, quando le grandiose feste nuziali per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia avevano dato ampio spazio a tale modalità di rappresentazione. Gli invitati ai festeggiamenti avevano potuto così ammirare quel nuovo modo di fare spettacolo: tra loro figurava anche il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, che coi Medici per di più era imparentato. Anzi, suo figlio minore Ferdinando, studente a Pisa, nei carnevali 1606 e 1607 aveva avuto modo di far rappresentare rispettivamente un ‘abbattimento’ e una ‘commedia’ recitati cantando davanti alla corte medicea, che in quel periodo era solita trascorrere a Pisa i mesi invernali. Dunque l’iniziativa di Francesco Gonzaga si può interpretare come un desiderio di emulazione di quanto, in campo teatrale e musicale, stavano promuovendo i Medici.

La realizzazione di quel progetto teatrale venne affidata all’Accademia degli Invaghiti, un sodalizio fondato a Mantova un cinquantennio prima sotto il patrocinio della dinastia regnante. Era Invaghito (col nome accademico di Ritenuto) il conte Striggio, che provvide a stendere il testo letterario, dato poi da intonare al maestro della musica ducale, Monteverdi. La recita non avvenne nel teatro di corte, ma in una sala non molto grande della residenza gonzaghesca, allestita per l’occasione: alla ‘prima’ del 24 febbraio seguì una replica, il 1º marzo 1607. Siamo a conoscenza solo di alcuni degli interpreti della ‘prima’: il castrato Giovan Gualberto Magli (nel prologo impersonò la Musica, e poi Proserpina, e la messaggera oppure la Speranza), al servizio presso la corte medicea e prestato per l’occasione ai Gonzaga; il tenore Francesco Rasi (con ogni probabilità fu Orfeo), nobile aretino, come Magli allievo di Francesco Caccini e dunque formatosi anch’egli in ambiente fiorentino; un giovane sacerdote, forse padre Girolamo Bacchini (Euridice). La partitura monteverdiana prevede un’orchestra formata almeno da due clavicembali, due viole contrabbasse, dieci viole da braccio, un’arpa doppia, due violini piccoli alla francese e due ordinari da braccio, tre chitarroni, ceteroni, due organi di legno, tre viole da gamba basse, cinque tromboni, alcuni regali, due cornetti, due flauti piccoli, quattro trombe di cui una chiarina e tre sordine. In occasione della ‘prima’ venne stampato il solo testo letterario di Striggio ( La favola d’Orfeo , Mantova, Francesco Osanna, 1607). La partitura monteverdiana fu pubblicata un paio d’anni più tardi ( L’Orfeo , Venezia, Ricciardo Amadino, 1609: ristampata nel 1615): il che consentì a quest’opera di ottenere notorietà anche presso quanti non erano stati presenti alle rappresentazioni mantovane, e di consentire suoi allestimenti anche in seguito e altrove. Recite successive dell’ Orfeo sono state ipotizzate a Torino nel 1610 e a Salisburgo nel 1614. Con certezza sappiamo però solo di una rappresentazione genovese, avvenuta al Teatro del Falcone prima del 1646.

Prologo . La Musica introduce la vicenda presentandosi, illustrando l’argomento e chiedendo silenzio ("Dal mio Parnasso amato a voi ne vegno").

Atto primo . I pastori si raccolgono festosi attorno a Orfeo ed Euridice, che stanno per celebrare le loro nozze ("In questo lieto e fortunato giorno"). Vengono intonate preghiere propiziatorie ("Vieni, Imeneo, deh vieni") ed eseguite gioiose danze corali ("Lasciate i monti, lasciate le fonti"). Orfeo chiama gli astri a testimone della sua felicità ("Rosa del ciel, vita del mondo e degna"), ed Euridice gli fa eco. Poi tutti si avviano al tempio in cui si compirà il rito. Additando questa ulteriore riprova, il coro invita a non lasciarsi mai prendere dalla disperazione ("Alcun non sia che disperato in preda").

Atto secondo . Orfeo ritorna ai suoi boschi e ai suoi prati, al culmine della felicità ("Ecco pur ch’a voi ritorno"), mentre i pastori continuano a intonare lieti canti ("Mira, ch’a sé ne alletta" e "In questo prato adorno"). Lo stesso Orfeo si esibisce in una canzone strofica ("Vi ricorda, o boschi ombrosi"). Quell’atmosfera gioiosa è però turbata dai gemiti di Silvia che, provocando la costernazione generale, informa dell’improvvisa e inopinata morte di Euridice. Silvia racconta come tutto ciò sia potuto accadere ("In un fiorito prato"): mentre raccoglieva fiori, Euridice è stata morsa da un serpente, ed è spirata tra le braccia delle sue compagne invocando il nome dell’amato Orfeo. Tutti sono sconvolti: Orfeo addirittura si propone di scendere nell’oltretomba per cercare di riportare Euridice alla vita ("Tu sei morta, mia vita, ed io respiro?"). Un generale compianto accompagna la sua disperazione ("Ahi, caso acerbo, ahi, fato empio e crudele").

Atto terzo . Orfeo penetra nel regno degli inferi guidato dalla Speranza ("Ecco l’atra palude, ecco il nocchiero"). Lasciato solo, Orfeo s’imbatte in Caronte, il traghettatore delle anime dei morti, che gli si para davanti impedendogli l’accesso ("Oh tu che innanzi a morte a queste rive"). Orfeo tenta vanamente d’impietosirlo ("Possente spirito e formidabil nume"): decide allora di provocarne il sonno intonando un’appropriata melodia sulla sua lira, e di utilizzarne nel frattempo l’imbarcazione per attraversare il fiume infernale ("Ahi, sventurato amante"). Il coro addita quest’azione come caso esemplare di ardimento umano ("Nulla impresa per uom si tenta invano").

Atto quarto . Giunto al cospetto delle divinità infere, Orfeo espone il suo caso. Trova una sostenitrice in Proserpina che, in nome e nel ricordo di quanto ha fatto per amor suo, prega Plutone di accontentare Orfeo. Plutone acconsente, stabilendo però che Orfeo non dovrà mai guardare Euridice prima di aver lasciato l’oltretomba. Orfeo è dapprima raggiante per il successo, e canta ("Quale onor di fia degno"), ma poi inizia a essere roso dal dubbio che Euridice lo segua davvero nel cammino di ritorno sulla terra ("Ma mentre io canto, ohimè, chi m’assicura"). Spaventato da strani rumori, si volta a controllare se Euridice è con lui, infrangendo così la clausola dettata da Plutone e perdendola per sempre ("Dove ten vai, mia vita? Ecco, io ti seguo"). Il coro sottolinea il paradosso: Orfeo, che l’aveva spuntata contro la legge di natura, non è riuscito a vincere se stesso e le sue passioni ("È la virtute un raggio").

Atto quinto . Ritornato sulla terra, Orfeo piange la sua sorte e si propone di non più innamorarsi ("Questi i campi di Tracia, e quest’è il loco"). Dal cielo scende suo padre Apollo, cercando di consolarlo e portandolo con sé in cielo ("Saliam cantando al cielo"): il coro se ne rallegra, sottolineando come il dolore sulla terra sia ripagato in cielo ("Vanne, Orfeo, felice appieno").

Anziché con la discesa di Apollo e la ‘beatificazione’ di Orfeo, il testo letterario stampato in concomitanza con la ‘prima’ faceva terminare l’opera con un’irruzione delle baccanti, che si abbandonavano a celebrazioni dionisiache prima di volgersi all’inseguimento di Orfeo, per punirlo con la morte delle sue affermazioni misogine. La disparità di queste due conclusioni (finale dionisiaco del libretto, finale apollineo della partitura) potrebbe imputarsi all’angustia della sala in cui la prima rappresentazione avvenne, e all’impossibilità di impiegarvi dispositivi di macchine sceniche complesse. Essa potrebbe però riflettere anche una duplice soluzione prospettata per due diverse udienze: quella dionisiaca, più sofisticata dal punto di vista culturale, pensata per la ‘prima’ davanti ai soli accademici; quella apollinea, più spettacolare e moraleggiante in senso cristiano (e musicalmente non immune da sospetti di facilismo), pensata a tambur battente come rimpiazzo per la replica una settimana dopo davanti a un pubblico meno selezionato.

Il soggetto sceneggiato da Striggio era il medesimo già impiegato pochi anni prima per una di quelle recite fiorentine del 1600 di cui si è detto: precisamente, per L’Euridice di Ottavio Rinuccini posta in musica da Jacopo Peri. Per quanto di ambiente boschereccio e non privo di rimandi ai modelli di teatro pastorale di Tasso ( Aminta ) e Guarini ( Il pastor fido ), rispetto al lavoro di Rinuccini Striggio dà al suo testo una maggior patina tragica: lo divide nei regolari cinque atti chiusi da cori gnomici, lo conforma almeno alle unità d’azione e di tempo anche se non di luogo. Gli imprime poi un taglio più drammatico di Rinuccini: alcune azioni e decisioni del protagonista sono prese in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori, e non solo raccontate; all’interno degli atti non mancano grandi strutture, allestite per far risaltare le situazioni sceniche (ad esempio, nel primo il tableau con al centro la coppia Orfeo-Euridice; nel secondo i lieti canti strofici di Orfeo e dei pastori, di contro al successivo ‘parlato’ della messaggera con la ferale notizia della morte di Euridice). Estremamente significative (anche perché del tutto insolite nel clima poetico dell’epoca) risultano le citazioni dantesche di cui sono ricchi i due atti ‘infernali’ (il terzo e il quarto). Per parte sua, Monteverdi non per la prima volta si cimentava con le nuove tecniche di canto a voce sola su basso continuo. Fino ad allora, tuttavia, ciò era avvenuto nell’ambito del genere madrigalistico: gli ultimi brani del Quinto libro di madrigali a cinque voci (1605) richiedevano infatti obbligatoriamente il basso continuo, in quanto impiegavano appunto tali tecniche. In questa sua prima prova teatrale secondo i recentissimi dettami fiorentini, Monteverdi diede opportuno rilievo alle parti poetiche strutturate e conchiuse (quelle che corrispondono a situazioni musicali: canti, cori, danze, preghiere), facendone altrettanti brani compiuti caratterizzati da stroficità - integrale o del solo basso continuo -, scrittura polifonica, refrain strumentali, formulazioni melodiche profilate in senso molto cantabile. Tutte queste strutture spiccano su di uno stile recitativo che, analogamente alle prime esperienze fiorentine, si propone come ideale un’amplificazione del declamato che gli attori del teatro parlato erano soliti impiegare. Rispetto a Cavalieri, Peri e Caccini, lo stile recitativo monteverdiano è però molto più mobile e patetico, e ricorre a soluzioni armonicamente e melodicamente anche assai ardite, ma sempre per finalità espressive. Esempi impareggiabili di questo stile patetico sono il racconto della morte di Euridice e il successivo lamento di Orfeo. Protagonista della ‘favola’, in forza del vario e intenso stile di canto con cui Monteverdi intonò la sua parte, quest’ultimo è davvero una figura a tutto tondo, con notevoli sfaccettature psicologiche e in grado di percorrere una parabola scenica assai varia e articolata: insomma, un vero e proprio personaggio teatrale, e anzi forse il primo autentico protagonista della storia del teatro musicale.

p.f.


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