Le parole della filosofia, II, 1999

Seminario di filosofia dell'immagine


I LIBRI CAROLINI

- Amos Bianchi -

I Libri Carolini nella storia

La Chiesa e le immagini sino al Secondo Concilio di Nicea. È certo che sin dalla fine del terzo secolo dopo Cristo la civiltà cristiana si sia servita di immagini: simboliche all'inizio, mentre proprio con l'inizio del quarto secolo comincia a svilupparsi anche un'arte mimetica.

La legittimazione dell'utilizzo delle immagini nella civiltà cristiana fu però sovente messa in discussione. Nell'Antico Testamento si poteva rintracciare in più di un passo una tendenza di fondo contro le immagini. Così si esprime ad esempio il secondo Comandamento: "Non avrai altro Dio fuori che me. Non ti fare nessuna scultura né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra" (Esodo, 20, 4), ammonizione riaffermata in Deuteronomio 4, 15-18. Il timore ebraico riguardava il fatto che l'immagine potesse convertirsi in idolo: se il culto prestato al soggetto dell'immagine fosse divenuto culto dell'immagine stessa, l'immagine sarebbe stata equiparabile all'idolo.

Il primo Concilio in cui si trattò il problema dell'immagine, tenuto ad Elvira all'inizio del IV secolo, si pronunciò per queste ragioni contro l'adozione delle immagini: "Decidiamo che non ci debbono essere pitture nelle chiese, affinché non sia dipinto sulle pareti ciò che viene riverito ed adorato" (Mansi, II, 11).

Quasi quattro secoli dopo il paradigma però cambiava completamente. Nell'Impero Bizantino, nel quale il culto e la diffusione delle immagini erano vastissimi, nelle sedute del Concilio Quinsesto (691-692) ci si pronunciò in modo assolutamente favorevole all'adozione dell'immagine: "Affinché, quindi, anche con la espressione dei colori sia posto sotto gli occhi di tutti ciò che è perfetto, comandiamo che d'ora innanzi, invece dell'antico agnello, il carattere di colui che toglie i peccati del mondo, cioè Cristo nostro Dio, sia dipinto e raffigurato sotto forma umana, affinché per suo mezzo, comprendendo con la mente la grandezza della umiliazione del Verbo di Dio, siamo condotti anche alla memoria della sua vita, della sua passione e della sua morte salvifica, e della redenzione del mondo che egli operò" (Mansi XI, 977-980). Nel momento in cui Cristo si è incarnato, si è reso visibile e quindi rappresentabile: la rappresentazione di Cristo deve essere allora incoraggiata, in quanto può essere di stimolo per il rafforzamento delle fede nel credente.

Proprio a Bisanzio, nel centro di maggiore diffusione dell'immagine sacra, accadde però che la lotta teorica contro l'immagine divenisse scontro politico. A partire dal terzo decennio dell'ottavo secolo infatti l'imperatore bizantino Leone III avviò una rigorosa campagna contro l'immagine che ha preso il nome di iconoclastia.

Sulle ragioni che portarono a questa scelta Leone III non tutti gli storici concordano. L'atto formale con cui si avviò la campagna iconoclasta è però certo: la deposizione e distruzione dell'icona di Cristo affissa sopra la Chalkhè, la porta di bronzo che serviva da ingresso principale del palazzo imperiale di Costantinopoli., avvenute nel 727.

Il fenomeno iconoclasta continuò sotto il regno di Leone III e si inasprì sotto quello di suo figlio Costantino V: le immagini vennero ricercate e distrutte; si adottò la pena capitale contro gli adoratori e i fabbricatori di immagini; i monaci, casta principalmente favorevole all'uso delle immagini, furono uccisi o umiliati; i patriarchi iconofili destituiti.

L'iconoclastia trovò la propria apoteosi nel Concilio di Hieria, tenuto nel 754 presso Costantinopoli, in cui 338 vescovi orientali si pronunciarono contro l'immagine: "Se qualcuno cerca di circoscrivere con colori materiali in effigie umane l'incircoscritta essenza e sussistenza di Dio, per il fatto che si è incarnato, e non riconosce invece come Dio, Lui che anche dopo l'Incarnazione resta non di meno, incircoscritto: anatema" (AAVV, Bisanzio nella sua letteratura, , a cura di Albini A. e Maltese E. V., Garzanti, Milano 1984, p. 273). Il divieto di raffigurare la divinità veniva poi esteso a ogni tipo di rappresentazione di soggetti liturgici, in modo da coinvolgere anche la Madonna e tutti i Santi.

Lo scoppio dell'iconoclastia non venne per nulla ignorato nella sede pontificia, favorevole secondo tradizione all'utilizzo delle sacre immagini. Papa Gregorio II già dal 727 inviò due lettere a Leone III con le quali cercava di convincerlo a non proseguire sulla strada iconoclasta. Ottenuta una risposta negativa, il papa successivo, Gregorio III, convocò nel 731 un Concilio a Roma, cui parteciparono 93 vescovi, durante il quale si scagliò la scomunica contro gli iconoclasti. Ancora nell'aprile del 769 in un ulteriore Concilio tenuto nella basilica del Laterano si usò di nuovo la misura dell'anatema contro gli iconoclasti e si confermò il proprio favore all'uso delle immagini: "Se desideriamo attingere al conforto che i Santi ci offrono, dobbiamo venerare con l'onore più grande sia le reliquie non solo dei corpi, ma anche degli indumenti, sia le basiliche consacrate ai loro nomi, sia anche le immagini e i loro volti in qualunque luogo siano stati dipinti" (Mansi XII, 720).

Anche nel nascente Regno Carolingio, sotto la presidenza di Pipino il Breve, si tenne un Concilio a Gentilly nel 767 riguardo alle immagini, di cui però sono andati perduti gli atti. Da fonti coeve risulta che i vescovi franchi che vi parteciparono si limitarono a dare il loro assenso alle risoluzioni prese dalla sede pontificia nel Concilio romano del 731.

L'iconoclastia aveva allora fatto sì che Bisanzio trovasse due agguerriti nemici dottrinari e politici: Roma e il nascente Regno Carolingio. Questa situazione, alla quale l'iconoclastia aveva portato l'Impero Bizantino, di isolamento fu percepita dalla moglie di Costantino V, Irene, salita al trono nel 785, che, in qualità di bassilissa, si affrettò a riconciliare i rapporti con la sede pontificia indicendo un solenne Concilio in cui si proponeva di reintegrare il culto dell'immagine.

Il Concilio si tenne a Nicea, già luogo di un primo Concilio ecumenico nel 325, nel settembre del 787. Vi parteciparono anche due legati inviati da papa Adriano I, ed altri inviati dalle sedi patriarcali di Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria. Durante le sedute del Concilio si decise che il culto all'immagine potesse essere consentito, in una modalità diversa ed inferiore rispetto al culto divino: "Si può tributare loro un affettuoso saluto ed una venerazione fatta di onori: non l'autentica venerazione della nostra fede, che è dovuta soltanto alla divina natura, ma lo stesso tipo di venerazione tributata alla forma della vivificante croce, ai santi Vangeli ed alle altre cose sacre dedicate a Dio" (Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica Edizioni, Palermo 1997, p. 147); si confutarono gli argomenti iconoclasti; si sanciva il ruolo dell'immagine nella civiltà cristiana: "la rappresentazione pittorica iconografica (...) è in accordo con la proclamazione evangelica, a conferma dell'Incarnazione del Verbo di Dio, incarnazione vera e non immaginaria. (...) questa rappresentazione è apportatrice di un beneficio simile a quello del racconto evangelico, giacché cose che alludono reciprocamente l'una all'altra senza dubbio recano il riflesso l'una dell'altra" (Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'immagine, op. cit., p. 147).

Si chiudeva in questo modo il Secondo Concilio di Nicea, stabilendo la dottrina universale della Chiesa in materia di immagine. A livello teorico si sanciva che non vi fossero gerarchie nella trasmissione del messaggio cristiano, e che quindi immagine e testo sacro fossero mezzi di comunicazione complementari; l'immagine inoltre diveniva oggetto sacro, al pari dei Vangeli, insieme ai quali costituiva una prova dell'Incarnazione di Cristo.

A livello politico una questione rimaneva però aperta: quale ricezione gli atti del Concilio avrebbero avuto alla corte carolingia, il cui apparato ecclesiastico era rimasto escluso dalle sedute del Concilio.

La genesi dei Libri Carolini Il 23 ottobre 787 si chiudeva il Secondo Concilio ecumenico di Nicea. Quando gli atti del Concilio, in forma di resoconto o integrali, giunsero a Roma, Adriano I ne ordinò la traduzione dal greco al latino. Questa fu realizzata da qualche oscuro chierico che non conosceva bene il greco. In particolare, i due termini greci che indicavano il culto dovuto all'immagine ed il culto dovuto a Dio, proskynesis e latreia, vennero tradotti con il medesimo termine latino, adoratio. Ne risultava che un identico culto dovesse essere tributato a Dio e all'immagine.

Tra il 789 e il 790 questa cattiva traduzione degli atti giunse alla corte di Carlo Magno, che decise allora di procedere a una risposta ferma e violenta alle insolenze scritte dai Greci.

La risposta agli atti del Concilio di Nicea sono dunque i Libri Carolini, ovvero, nel titolo filologicamente più corretto, Capitulare de Imaginibus. Chi li abbia scritti in prima persona, è questione sulla quale tuttora i filologi dibattono. Mentre, nella prima metà di questo secolo, sembrava corretto indicare in Alcuino l'autore principale, oggi si propende per l'attribuzione del testo a Teodulfo vescovo di Orléans. È tuttavia certo che, data l'ampia mole del testo, un buon numero di intellettuali gravitanti attorno alla corte collaborò alla stesura, e che lo stesso Alcuino diede l'imprimatur all'opera.

La stesura definitiva del testo si ultimò nel 793. Tuttavia sembra che una bozza fosse già disponibile verso la fine del 790, e che nello stesso anno o nell'anno successivo questa sia stata inviata da Carlo Magno al papa Adriano I per far sì che anche il pontefice sostenesse le tesi dell'ambiente carolingio contro quelle dei Padri Niceni. Adriano I lesse accuratamente la bozza e la confutò capitolo per capitolo, in accordo con le risoluzioni del Concilio di Nicea. Lo stesso papa inviò una lettera a Carlo Magno, nel 792 o nel 793, in cui erano esposte le proprie obiezioni alla bozza dei Libri Carolini.

La lettera giunse a Carlo Magno nel 793, poco dopo l'approvazione definitiva della corte franca della versione completa e riveduta dei Libri Carolini, ultimata proprio quell'anno. Poiché la superiorità del papa in ambito teologale non poteva essere messa in discussione tanto da diffondere un testo palesemente in contrasto con i suoi convincimenti, per di più espressi chiaramente in una lettera indirizzata alla persona del re franco, fu riservato ai Libri Carolini, testo scritto con grandi ambizioni editoriali, il triste destino di essere sepolti in qualche biblioteca e dimenticati: nei manoscritti coevi vengono citati solo due volte.

Un anno dopo, nel 794, fu convocato a Francoforte un Concilio, cui parteciparono vescovi di tutto il regno franco, con l'intento principale di condannare l'eresia adozianista. Dei Libri Carolini non si fece menzione diretta, ma il secondo canone, riguardante le immagini, indubbiamente riporta le medesime tematiche: "Si tenne nell'assemblea una discussione riguardo al sinodo dei Greci, che era stato convocato a Costantinopoli per decretare l'adorazione delle immagini, nel quale era stato scritto che si scagliava l'anatema contro coloro che non avessero offerto servitù o adorazione alle immagini dei Santi, così come alla Trinità deificatrice. In tutti i modi i santissimi nostri padri [...] rigettarono con disprezzo l'adorazione e la servitù, e condannarono coloro che accettavano questa dottrina" (MGH, Conc. Aevi Kar., I, II, 1, p. 165).

L'uscita dall'oblio dei Libri Carolini avvenne solo nel 1549, quando Jean du Tillet ne scoperse il manoscritto in una cattedrale e lo pubblicò anonimo. Il testo solo allora cominciò a godere di quella notorietà che gli era stata preclusa, poiché i Protestanti, e soprattutto Calvino, se ne appropriarono e ricavarono la base teorica per la loro teoria contro il culto delle immagini, mentre fu messo all'Indice dalla Chiesa cattolica per uscirne solo nel 1900.

La via media dell'immagine nei Libri Carolini

La via media dei Libri Carolini. "Le immagini, che il sinodo precedente non aveva nemmeno permesso di scorgere, si sancì che dovessero essere adorate" (LC praefatio): i Libri Carolini nacquero come reazione dell'élite intellettuale carolingia alle vicende che avevano caratterizzato la querelle delle immagini durante tutto l'ottavo secolo a Bisanzio. La coscienza della propria superiore diversità rispetto al movimento iconoclasta e alla sua concretizzazione dottrinale, il sinodo di Hieria, viene enunciata con chiarezza sin dalla prefazione: "Si tenne nei territori della Bitinia prima di questi anni un certo sinodo, la cui impudenza fu tanto sfrontata e senza confine che abolivano le immagini, (...) e ciò che Dio aveva stabilito riguardo agli idoli, quelli stabilirono che dovesse essere eseguito per tutte le immagini" (LC praefatio).

La condanna carolingia non risparmiò neppure l'apoteosi del movimento iconofilo, il Concilio di Nicea: "Circa tre anni fa si svolse in quei luoghi un altro sinodo, tenuto dai successori di coloro che avevano indetti il precedente, e la partecipazione a questo sinodo fu ancora maggiore. Sebbene questo diverga dal precedente per risoluzione, tuttavia non se ne allontana per l'entità dell'errore; e se sono differenti le circostanze che lo generarono, è tuttavia pari al precedente per infamia" (LC praefatio).

Il rifiuto di entrambe le posizioni, a favore del culto o contro le immagini, impose ai teologi carolingi la necessità di un'elaborazione propria, una terza via nella teoria dell'immagine che evitasse gli eccessi che avevano caratterizzato le risoluzioni iconomache ed iconofile, una dottrina in cui l'utilizzo delle immagini venisse autorizzato con moderazione: "adorando un solo Dio e venerando i suoi santi, secondo l'antica ecclesiastica tradizione dei Padri, teniamo le immagini nella chiesa per bellezza e ricordo dei fatti" (LC II, 31).

La terza via carolingia sulle immagini, che nacque dal rifiuto dei Concili di Hieria e di Nicea, rappresentava secondo i teologi di Carlo Magno l'autentica prosecutrice della tradizione ecclesiastica, trovando la propria legittimazione in una interpretazione corretta dei Padri della Chiesa e dei Comandamenti, che gli avversari polemici avevano equivocato. La posizione carolingia trovò allora il proprio slogan in un motto già appartenente alla cultura pagana: "allora in tutte le cose bisogna avere moderazione secondo la regola del giusto mezzo, e a memoria deve essere tenuta quella sentenza filosofica che afferma: 'Ne quid nimis'" (LC IV, 8).


Immagine, verità e scrittura. I Libri Carolini nascono innanzitutto come risposta ai due Concili orientali sulle immagini. Il grande torto teorico di questi due Concili era stato quello di non aver saputo elaborare una teoria dell'immagine coerente con l'ortodossia religiosa. Secondo l'autore dei Libri Carolini era stata teorizzata male proprio la questione di fondo a partire dalla quale si dibatteva il problema dell'immagine, cioè la vera relazione fra mondo spirituale e mondo materiale. Che il mondo materiale avesse una qualche relazione con quello spirituale era dato comune di entrambi le culture; la differenza consisteva nella differente interpretazione del rapporto fra materiale e spirituale. Infatti la possibilità che il materiale sia in relazione con lo spirituale è molto più radicata nella cultura orientale che in quella occidentale, nella quale la materia è più distaccata dallo spirituale e non ne può divenire segno. Il mondo materiale di per sé è buono e non va rigettato, ma il valore di verità della materia è nullo.

Nei Libri Carolini alcuni dati sono posti in relazione con lo spirituale, pur non essendone segno, e prendono il nome di res sacratae: l'Eucarestia, i vasi sacri, la croce, l'Arca dell'Alleanza, la Scrittura.

L'immagine non può mai invece costituire una chiave di accesso al mondo dello spirituale, poiché la forma iconica può rendere solo aspetti esteriori materiali della cosa rappresentata. L'immagine quindi si relaziona con il prototipo secondo il rapporto che vige fra materiale e spirituale: può rendere solo aspetti esteriori della cosa rappresentata.

L'immagine non porta quindi il fedele alla contemplazione delle cose spirituali, ma al contrario lo trascina verso quelle materiali, che in nessun modo possono divenire per lui mezzo di acquisizione della salvezza.

In Genesi 1, 26 Dio afferma: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza". Sull'interpretazione dei termini 'immagine' e 'somiglianza' i teologi dell'immagine orientali avevano a lungo dibattuto. Teodulfo, in virtù di una teoria dell'immagine in cui il dato spirituale viene escluso, afferma con decisione come questo passo non riguardi il problema dell'immagine in senso stretto: "chi dunque crede che l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, così come l'immagine è stata prodotta dall'autore a immagine dell'uomo, mostra di credere che in Dio vi sia qualcosa di corporeo, e ciò non è lecito credere. Infatti se pertiene alle immagini formate il fatto che l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, secondo una specie corporea l'uomo è stato fatto a immagine di Dio; e se l'uomo secondo la specie corporea è stato fatto a immagine di Dio, Dio è corporeo. Dio è invece incorporeo, quindi non pertiene alle immagini formate il fatto che l'uomo sia stato fatto a immagine e somiglianza di Dio" (LC I, 7). La relazione di somiglianza fra Dio e l'uomo riguarda solo l'aspetto spirituale dell'uomo, e non ha alcuna connessione con l'aspetto corporeo.

Dello spirituale non è mai possibile dare immagine: la forma iconica non può essere segno dell'invisibile. Quindi non è possibile rappresentare Dio: "Costui, se è invisibile, anzi poiché è invisibile, è necessario che sia incorporeo; e se è incorporeo, ne consegue che non può essere dipinto materialmente. Allora se è invisibile ed incorporeo, non può essere dipinto in nessun modo con sostanze materiali" (LC II, 16). La materia corruttibile di cui le immagini sono fatte non permette che esse rappresentino lo spirituale. Si può allora ipotizzare che nei Libri Carolini si affermi che l'immagine vera si basi su una somiglianza anche consustanziale col prototipo; poiché ciò è impossibile, tranne che nel rapporto di somiglianza fra Padre e Figlio, nessuna immagine può avere valore ontologico.

Nell'immagine allora la relazione fra rappresentazione e prototipo si basa esclusivamente sulla riproduzione dell'aspetto corporeo dell'uomo, mentre in nessun modo se ne riproduce l'aspetto spirituale. Ciò che Teodulfo non si stanca mai di considerare è la mancanza di spirito e vita, elementi che differenziano l'uomo dalla materia, nell'immagine: "infatti è vero che le immagini siano senza senso e ragione, che invece lo siano gli uomini è falso" (LC I, 2).

Teodulfo poi nutre un grande sospetto nei confronti dell'immagine per il carattere di finzione che essa possiede: paradossalmente più l'immagine è 'vera', cioè maggiore è il grado di somiglianza fra l'immagine e il prototipo, maggiore è il suo dato di falsità, in quanto si aumenta l'inganno nei confronti dello spettatore. L'immagine più ingannevole è anche quella più mimetica, secondo una dottrina che era già stata propria di Isidoro da Siviglia, che nelle Etimologie aveva scritto: "Pictura autem dicta est quasi fictura" (PL 82, col. 676).

Poi la falsità dell'immagine secondo Teodulfo implica altri pericoli per lo spettatore: può attenuarsi infatti la separazione che vige fra rappresentazione e rappresentato, cosicché l'apparire viene confuso con l'essere. Quindi non solo l'immagine può divenire 'vera' quanto l'oggetto raffigurato, ma può acquisire indipendenza dalla realtà del rappresentato: lo spettatore, ingannato dal potere di finzione dell'immagine, può donare un valore d'essere all'immagine indipendentemente dall'oggetto che ne costituisce il prototipo. L'immagine come rappresentazione dell'inesistente può generare la credenza nello spettatore che l'inesistente esista effettivamente al di fuori della rappresentazione: "l'arte della pittura (...) talvolta spinge l'intelletto dalla verità a meditare le falsità, ed offre alla vista non solo quelle cose che sono o furono o possono essere, ma anche quelle che né sono né furono né possono essere" (LC III, 23).

Intesa in questo senso, l'immagine si avvicina allora alla concezione propria della civiltà cristiana di idolo, come rappresentazione di qualcosa che non esiste. Nei Libri Carolini si puntualizza però con precisione la differenza fra i due concetti: "l'immagine è il genere, l'idolo invero la specie" (LC praefatio). Mentre l'iconoclastia aveva sancito che ogni immagine dovesse essere abolita in quanto idolo, i Libri Carolini affermano la differenza fra i due concetti: l'immagine non è un idolo ma può divenirlo se utilizzata in modo scorretto; bisogna quindi cautelarsi affinché la pratica dell'immagine non si offra al culto.

Se l'immagine è quindi mero dato materiale, l'espressione vera dello spirituale va ricercata in un linguaggio che non sia quello figurativo. La Verità dello spirituale è la Rivelazione, che si manifesta attraverso il linguaggio verbale della Scrittura. La Scrittura dunque e non l'immagine è il luogo in cui si è espressa la Verità e il mezzo di cui il fedele può disporre per raggiungere la Salvezza. Di fronte alle risoluzioni del Secondo Concilio di Nicea che avevano affermato, in virtù dell'Incarnazione, il valore di verità dell'immagine, nei Libri Carolini si ribadisce la assoluta superiorità della Scrittura nella trasmissione del messaggio cristiano: "è dato di capire che non le pitture ma le Scritture sono state concesse per l'educazione della nostra fede. Quanto quindi sia incauto e quanto lontano dalla ragione affermare: 'Come i libri della divina Scrittura, così abbiamo le immagini per memoria della venerazione', può comprendere facilmente chiunque abbia cognizione delle divine Scritture" (LC II, 30).

Accanto alla Scrittura in senso proprio nei Libri Carolini si afferma la legittimità del linguaggio verbale: il testo scritto di carattere teologico, il commento al testo sacro sono i mezzi con cui può essere sondata la Verità. Se la Rivelazione ha utilizzato il linguaggio verbale per essere espressa e tramandata, ipso facto il logos può essere espresso tramite il linguaggio verbale.

Il linguaggio verbale e quello figurativo possono però presentare numerose analogie: entrambi utilizzano un lessico, costituito dagli elementi significanti, e regole di assemblaggio di questo lessico. La narrazione per immagini può essere equivalente alla narrazione per parole: entrambi i mezzi di comunicazione si prestano a raccontare fatti. Come ogni singola parole necessita del testo antecedente e susseguente per acquisire significato pieno, così anche la singola pittura che compone il ciclo figurativo è semanticamente dipendente dalla legge della serie che determina il ciclo.

Nei Libri Carolini però questo paradigma non può essere accettato, in quanto la parola è il solo tipo di segno visibile che può muovere il fedele alla meditazione dello spirituale, che un'opera manufatta non può mai stimolare; mentre le parole rimandano all'ambito del pensiero e quindi possono fungere da mezzo per la ricerca di Dio, l'immagine non può uscire dall'orizzonte del mondo materiale.

La semantica dell'immagine

Mentre l'immagine nella cultura orientale ha come tipologia propria quella del simbolo, nella cultura dell'occidente alto- medievale prevale la concezione dell'immagine narrativo- metaforica. Nell'orizzonte figurativo si definisce metaforica quel tipo di immagine che ha la necessità di relazionarsi con altro per acquisire contenuto a livello conoscitivo. La significazione che l'immagine dà dell'oggetto rappresentato non ne esaurisce la conoscenza. La sensibilità se considerata come autonoma non è in grado di giudicare, poiché l'immagine non reca in sé contenuto conoscitivo compiuto.

La conoscenza dell'immagine inizia a nascere allora nel momento in cui la sensazione, l'intuitus, si relaziona con la memoria immaginativa del soggetto percipiente: la conoscenza del rappresentato scaturisce dall'associazione mentale fra il dato sedimentato nella memoria discorsiva e la percezione attuale.

Nel Libri Carolini tuttavia viene messo in rilievo come non sia sufficiente allo spettatore l'associazione della sensazione alla memoria discorsiva per conoscere il contenuto dell'immagine. In un passo celebre scrive infatti Teodulfo: " Sono offerte a chiunque di coloro che adorano le immagini, per esempio, le immagini di due belle donne che mancano di iscrizione, che un tale (...) trascura e permette che giacciano abbandonate in un qualunque luogo. Chi gli dice: 'Una di quelle è l'immagine della Santa Madre, e non deve essere trascurata; l'altra invece è di Venere, e deve essere ignorata', si volge al pittore e gli chiede, poiché sono in tutto molto simili: 'Delle due qual'è l'immagine della Madonna e quale quella di Venere?' Quello dà all'una l'iscrizione della Madonna, all'altra quella di Venere. Questa, che ha l'iscrizione della Madre di Dio, viene eretta, onorata, baciata; quella, poiché ha l'iscrizione di Venere, madre di Enea, un profugo qualunque, viene abbattuta, incolpata, esecrata. Entrambi sono di simile figura, i colori sono uguali, i materiali di cui sono composte sono simili: si differenziano soltanto per l'iscrizione" (LC IV, 16).

La comprensione dello spettatore si ferma allora alla soglia del significato più esteriore del segno, in base al quale si è in grado di cogliere il livello di senso più basso riposto nell'immagine, e totalmente ininfluente a fini religiosi: in questo esempio il contenuto sarebbe rappresentato solo da una bella donna.

La donazione di senso spirituale vera e propria non viene allora data all'immagine dal segno grafico che la compone ma dall'iscrizione, o titulus. La significazione verbale prevale sull'intuizione sensibile: una figura così subordinata alla parola non può illudere.

La funzione del titulus non è però solo quella di limitare l'immagine. Infatti solo tramite esso l'immagine può ricevere un contenuto spirituale: lo spettatore solo da esso viene condotto al di là dell'apparenza sensibile ad un contenuto trascendente, che possa essere edificante per il fedele.

L'immagine è quindi prima di tutto un oggetto fisico, composto da linee e colori. In secondo luogo però queste linee e colori sono un segno: in analogia con il testo l'immagine quindi ha come segno una propria grammatica e una propria sintassi. Il potere di significazione dell'immagine è però limitato: come essa si colloca in un ambito intermedio, in cui il dominio del dato materiale funge da limite al potere stesso di significazione dell'immagine, così lo spettatore nella percezione dell'immagine non può cogliere il dato spirituale. Solo per mezzo del titulus il significato dell'immagine trascende il limite del materiale e permette allo spettatore di comprendere le verità spirituali.

Il titulus allora assolve alla funzione di chiarificare per il fedele il contenuto dell'immagine, ma allo stesso tempo funge da limitazione alla comunicazione che l'immagine può offrire allo spettatore. I tituli procedono in parallelo alla distensione delle immagini sulle pareti, e permettono al fedele una ricezione più profonda del contenuto dell'immagine. Poiché la maggioranza del popolo dei fedeli era analfabeta, era probabile che aeditui o ostiarii leggessero e spiegassero il messaggio dei tituli ai fedeli quando questi seguivano sulle pareti delle chiese il racconto per immagini.

La visione delle immagini

Nei Libri Carolini è presente uno schema della visione interamente ripresa da Agostino quasi alla lettera: " Di queste (le visioni ndr) si danno tre generi: corporea, spirituale ed intellettuale. È oggetto della visione corporea ciò che accade attraverso il corpo; di quella spirituale le immagini che, mentre le vediamo, riponiamo nella memoria; intellettuale poi, quando quelle cose che vediamo corporalmente e tratteniamo nella memoria con la facoltà immaginativa, comprendiamo con l'intelletto. Con l'intelletto allora distinguiamo quale cosa sia corpo, quale similitudine del corpo.

Anche le bestie e le greggi e i volatili hanno ugualmente questo tipo di intelletto. Anche esse vedono per mezzo del corpo, e modellano immaginativamente la figura delle cose che vedono. Quindi anche le greggi riconoscono le stalle, e gli uccelli ritornano ai propri nidi, ma non comprendono né se stessi né le cose che vedono con gli occhi.

Infine codesta visione corporea non può fare a meno di quella spirituale. Dunque quando distogliamo lo sguardo dalle cose che vediamo in quel momento, tratteniamo nella memoria le immagini delle cose che non vediamo più. Poi la visione spirituale non può prescindere da quella corporea, per cui ricordiamo le persone assenti e scorgiamo immaginativamente nelle tenebre le cose che non vediamo. La visione intellettuale non abbisogna né di quella corporea né di quella spirituale. (...) Per mezzo di esso allora si vede la giustizia, la carità, lo stesso Dio, la stessa mente dell'uomo, che non ha nessun corpo, nessuna materialità del corpo" (LC III, 26).

Nel soggetto si differenziano dunque tre tipi di visione. La prima è detta da Teodulfo visione corporea. Questo tipo di visione riguarda l'ambito della sensibilità. Tramite essa si percepisce per mezzo del corpo ciò che accade al di fuori del corpo.

Il secondo genere di visione, detta spirituale, riguarda quegli oggetti di cui, una volta che siano stati percepiti sensibilmente, si trattiene la figura nella memoria. La memoria diviene allora il luogo in cui sono custodite le figure di tutte le percezioni. Ad essa si rivolge la visione spirituale ogni volta che la visione corporea percepisce un oggetto la cui figura è già sedimentata nella memoria immaginativa.

La memoria come luogo in cui si custodiscono le pitture mentali degli oggetti percepiti tramite la sensibilità è un concetto proprio già della cultura greca e romana precedente ai Libri Carolini. Nella memoria dunque si custodiscono le tracce delle percezioni sensoriali: imagines e simulacra nella cultura latina, phantasmata in quella greca. Questa memoria opera quindi imaginaliter, poiché essa ritiene come tracce mnestiche immagini delle cose che ha percepito tramite i sensi.

In uno scritto coevo, il Liber de animae ratione ad Eulaliam virginem (PL 101, coll. 639-650), Alcuino descrive in questo modo la relazione fra visione corporea e spirituale: "Ora quindi consideriamo la meravigliosa velocità dell'anima nel dare forma alle cose che percepisce attraverso i sensi carnali, dai quali, come se fosse per mezzo di alcuni messaggeri, con velocità inesprimibile subito forma in se stessa figure di qualunque cosa percepisca delle cose sensibili conosciute o sconosciute, e le ripone formate nel tesoro della sua memoria" (PL 101, col. 642). L'anima, attraverso il corpo, ha delle percezioni. I sensi, come messaggeri, portano all'anima informazioni che riguardano il mondo esterno. Queste informazioni però non vengono recepite passivamente dall'anima: essa infatti istantaneamente forma figure dagli stimoli sensoriali che il corpo le sta trasmettendo in quel momento. La sensazione quindi non è passiva, ma l'anima dà una forma alla sensibilità.

Alcuino sembra suggerire che il recupero dell'immagine riposta nella memoria avvenga istantaneamente in seguito ad un nuovo stimolo sensoriale cui l'immagine è associata: "Come infatti chi ha visto Roma, così crea la figura di Roma nel suo animo, e la forma quale è. E quando ascolta il nome o si ricorda di Roma, subito il suo animo ricorre alla memoria, in cui ha riposta la forma corrispondente, e lì la riconosce nella memoria, in cui l'abbia riposta" (PL 101, col. 642). Il nuovo stimolo sensoriale - il nome Roma ad esempio - fa sì che l'animo subito recuperi nella memoria immaginativa l'immagine (formam in questo passo, mentre nei Libri Carolini si trova imago ed in Agostino spiritus) corrispondente a quel dato stimolo, come era stata formata nel momento in cui era divenuto sensazione.

Nei Libri Carolini un altro passo riprende questo tipo di relazione, in cui all'esempio di Roma si sostituisce quello di una immagine di Cristo: "tale memoria, che si conserva con le immagini, non viene dall'amore del cuore, ma dalla necessità della visione; poiché evidentemente non l'amore interiore la spinge a ricordare Cristo, ma la necessità, per la quale riconduciamo alla mente, secondo la guida della visione, anche le cose sgradevoli, non appena le vediamo dipinte" (LC IV, 2). La memoria immaginativa dunque non sorge da un atto spontaneo dell'animo, ma, nel momento in cui la visione corporea offre un nuovo stimolo, in questo caso un'immagine di Cristo, necessariamente emerge il ricordo correlato a questo stimolo. A rafforzamento di questa tesi vi è secondo Teodulfo il fatto che anche quando vediamo dipinti fatti sgradevoli (res exosas), la cui vista si vorrebbe evitare, subentra immediatamente nell'animo il ricordo di episodi altrettanto sgradevoli, correlati a ciò che si è visto nel quadro.

La necessità della sensibilità non può allora portare alla conoscenza di Dio, poiché la ricerca di Dio può procedere solo da un atto di libertà dell'animo. L'uomo può allora cogliere Dio con il terzo tipo di visione, quella intellettuale. Nel momento in cui Teodulfo stabilisce che la visione intellettuale è indipendente da quella corporea e da quella spirituale, pone anche che la visione intellettuale prescinde completamente dall'orizzonte della materia. Con la visione intellettuale l'uomo si differenzia da ogni altro essere del creato, e si divincola dalla necessità del legame con la materia. L'uomo, sinché rimane schiavo della sensazione, rimane al livello della materialità, mentre la contemplazione del trascendente è solo un atto di libertà. Teodulfo ripete in questo passo la lezione agostiniana: per cogliere Dio non bisogna andare fuori da se stessi, ma è necessaria e sufficiente una ricerca interiore tramite la visione intellettuale; l'orizzonte della materia non è invece né necessario né sufficiente, ma è solo un aiuto ulteriore concesso all'uomo. Il dipinto allora si rivela essere qualcosa di pleonastico, in quanto sono altri i luoghi in cui deve essere ricercato Cristo.

Lo scopo dell'immagine

I Libri Carolini stabilirono che l'immagine, nonostante non potesse essere oggetto di culto e non fosse necessaria per la ricerca di Dio, avesse parimenti una funzione nella civiltà cristiana.

Teodulfo sottolinea spesso come tutte le limitazioni all'utilizzo delle immagini in materia di culto non comporti che le stesse immagini non debbano essere avute: "spesso in questa nostra opera particolare riguardo alle immagini affermiamo risolutamente che proibiamo non di averle, ma di adorarle" (LC II, 13). Avere un'immagine ed adorarla sono due modalità di utilizzo dell'immagine completamente diverse. Il referente polemico, in questo passo, di Teodulfo è l'iconoclastia, che aveva confuso le due cose: poiché possedere un'immagine poteva essere causa di idolatria, le immagini andavano distrutte. I Libri Carolini propongono allora una via intermedia, in cui l'immagine può essere da una parte avuta, dall'altra utilizzata a fini religiosi senza che si possa incorrere nel pericolo dell'idolatria.

Le immagini dunque devono essere tenute. La funzione cui assolvono è quella di essere viste: "non deve essere ostacolata la vista delle immagini, che sono state poste per abbellimento delle basiliche, ma deve essere condannata la loro adorazione, cosa stoltissima e pagana" (LC II, 13). Vedere un'immagine non comporta che le venga rivolto un culto di adorazione. La relazione fra immagine e fedele è differente perché differente è lo scopo dell'immagine: rievocare fatti cui lo spettatore non ha potuto essere presente.

La modalità con cui il fedele riporta alla luce questi fatti è quella del ricordo: "le immagini non hanno quasi nessun altro compito se non quello di suscitare il ricordo nelle menti attraverso l'intuizione di esse" (LC I, 10). Il fedele che quindi guarda le immagini è già a conoscenza dei fatti che le immagini stesse illustrano, avendoli appresi tramite forme di comunicazione differenti. L'immagine ha quindi lo scopo di riportare alla luce nella mente del fedele quei contenuti che il fedele ha già appreso: "una cosa è avere (le immagini ndr) per timore della dimenticanza, un'altra per amore della bellezza; una per volontà, una per mancanza; una cosa è quindi provvedere affinché qualcuno non sia in grado di dimenticarsi di Dio e dei suoi santi, e di conseguenza possa ricordarsi dei fatti" (LC II, 22). Poiché il fedele, a causa della sua limitatezza umana, può incorrere nel rischio di dimenticare la corretta dottrina cristiana, le immagini assolvono alla funzione di stimolarlo continuamente al ricordo dei fatti che sono alla base della dottrina. L'immagine deve quindi fungere da memento continuo per il fedele: deve stimolare il ricordo ma anche fungere da ammonimento continuo riguardo a quella che è la vera vita cristiana.

Lo scopo attribuito all'immagine nei Libri Carolini sembra dunque essere molto simile a quello che Gregorio Magno aveva già assegnato all'immagine due secoli prima. Il pontefice si era così espresso nella prima epistola indirizzata a Sereno, vescovo iconoclasta di Marsiglia: "Per questo motivo infatti si fa uso della pittura nelle chiese, affinché coloro che sono analfabeti 'leggano', perlomeno vedendole sulle pareti, ciò che non sono in grado di leggere nella Scrittura" (PL 77, col. 1027); e nella seconda aveva puntualizzato: "Una cosa è adorare una pittura, un'altra apprendere che cosa debba essere adorato grazie a ciò che è illustrato nella rappresentazione. Infatti ciò che la scrittura offre a coloro che leggono, questo la pittura offre a coloro che guardano, poiché in essa anche gli analfabeti vedono che cosa debba essere appreso, in essa leggono coloro che non sanno leggere" (PL 77, col. 1128).

Anche se è indubbio che da un punto di vista pratico la teoria dell'immagine di Gregorio e quella di Teodulfo conducano ad effetti molto simili, vige una differenza sostanziale fra il fine dell'immagine secondo i Libri Carolini e nell'intendimento di Gregorio Magno.

Nella concezione di papa Gregorio infatti le immagini assolvono alla funzione di predicazione al fine di istruire il popolo che, analfabeta, non ha la possibilità di leggere direttamente il testo biblico. In questo caso l'immagine è complementare alla Bibbia: poiché il messaggio cristiano non può raggiungere tutto il popolo dei fedeli sotto la forma di discorso, il contenuto biblico può essere anche appreso per mezzo dell'immagine. La predicazione raggiunge il popolo analfabeta tramite l'immagine. L'istruzione del popolo cristiano si può avvalere anche dei mezzi comunicativi offerti dall'immagine.

Nella concezione dei Libri Carolini invece immagine e discorso non possono essere mai collocati sullo stesso piano, poiché il secondo deve avere una prevalenza netta sulla prima. Le immagini non possono essere quindi il mezzo di istruzione del popolo cristiano, ma solo un aiuto per l'istruzione. La predicazione deve svilupparsi esclusivamente sul piano del discorso. L'immagine può intervenire in un momento successivo, con la funzione di sostegno continuo dei concetti esposti in una predicazione che è già stata effettuata. La Verità e l'immagine si collocano nella concezione di Teodulfo su due orizzonti differenti tali che non possono relazionarsi: il principio gregoriano dell'ipsa pictura quasi scriptura diviene quindi inaccettabile. La conoscenza della Verità non può quindi nascere dalla visione della realtà materiale, ma si colloca esclusivamente in ambito spirituale, che si rivela tramite il sermo. L'imago quindi non può collocarsi sullo stesso piano del sermo, ma deve semplicemente venire in aiuto ad esso. L'immagine può essere solo memoria rerum gestarum: assegnarle la funzione di Biblia pauperum può avere conseguenze teoriche alquanto pericolose.

Il fine primo per cui le immagini possono essere utilizzate nella religione cristiana è dunque quello di suscitare il ricordo dei fatti rappresentati nello spettatore. Accanto a questo scopo tuttavia Teodulfo ne affianca sempre un altro: l'ornamento delle pareti. Nei Libri Carolini il paradigma del prodesse et delectare, codificato da Orazio per quel che concerne la poesia, trova la sua piena applicazione nell'ambito dell'immagine. L'immagine non deve solo giovare, poiché i benefici che può apportare al fedele possono essere comunicati più efficacemente se piacevoli. Il potere retorico dell'immagine può divenire utile se è corretto il modo in cui si utilizza l'immagine.

Nella prima parte dell'Alto Medioevo occidentale la piacevolezza dell'immagine era stata sempre guardata con sospetto, come tutto l'ambito del sensibile: un'immagine che 'parlasse troppo', che fosse in grado di muovere emotivamente lo spettatore, si prestava troppo per queste sue caratteristiche intrinseche ad essere confusa con un idolo. In questo senso si esprimeva Agostino: "la somiglianza della forma e la disposizione ordinata delle membra seducono i cuori miseri dei mortali e li trascinano ad un certo sentimento meschino" (PL 37, coll. 1481-1482). Un'accentuazione della comunicazione sensibile dell'immagine poteva far sì che all'immagine stessa fossero attribuite qualità di feticcio: l'autonomia del senso estetico dell'immagine emancipava l'immagine dal prototipo, mettendo in secondo piano il senso vero spirituale dell'immagine. Nel momento in cui fosse prevalso l'ambito estetico su quello etico nell'immagine, ipso facto il valore di utilità dell'immagine sarebbe andato perduto: la verità del rappresentato sarebbe stata soffocata dall'apparenza piacevole della rappresentazione. La prevalenza dell'ambito estetico fornisce un valore d'essere alla rappresentazione, che in questo modo diviene idolo.

Nell'ottica dei Libri Carolini invece le proprietà estetiche di un'immagine non sono dannose in assoluto. I quattro secoli che separano la civiltà carolingia da quella agostiniana, ancora intrisa di paganesimo romano, hanno permesso il concetto di immagine non fosse più intimamente correlato a quello di idolo. Non si intravede in questo testo ancora la teorizzazione dell'autonomia estetica dell'ambito figurale, ma "in questo modo è socchiusa una porta per l'emancipazione del figurale" (Lyotard J. F., Discorso, figura, p. 204). Teodulfo in effetti fa solo intravedere la possibilità che il dato estetico dell'immagine possa essere indipendente dal valore di verità dell'immagine stessa: "tale autonomizzazione non è certo presente e i criteri del piacere rimangono rigorosamente sottomessi a quelli pedagogici, cioè del soggetto della rappresentazione e di conseguenza della sua scrittura" (J. F. Lyotard, Discorso, figura, p. 204-205). Prodesse e delectare non acquisiscono quindi un valore paritetico: il fine del giovamento prevale comunque su quello dell'abbellimento.

Il merito dei Libri Carolini è di aver riconosciuto l'esistenza di un ambito estetico a fianco di quello etico nell'immagine, e la differenza che vige fra questi due ambiti. La pericolosità che però poteva avere un ambito estetico completamente autonomo era ancora ben presente nella cultura carolingia: da qui deriva allora tutto il rigore con cui Teodulfo vincolò il criterio della piacevolezza dell'immagine a quello del giovamento.

L'immagine allora nella cultura carolingia, e soprattutto la sua concretizzazione nella pratica artistica della pittura, assolve a due grandi ed epocali funzioni sociali: educare l'uomo e rendere più bello il mondo in cui vive.

L'arte nei Libri Carolini

Il concetto di immagine proprio dei Libri Carolini ha una forte caratterizzazione pratica: le immagini sono prodotto dell'uomo, manufatti. Esse esistono nella loro concretizzazione, costituita dalla pittura. Imago e pictura sono sovente utilizzati come sinonimi. L'assunto fondamentale dei Libri Carolini, che le immagini non devono essere né adorate né distrutte, non inerisce ad un concetto astratto di immagine, ma alla loro esistenza concreta come manufatti. L'orizzonte in cui dunque le immagini trovano la propria manifestazione è quello della produzione umana, in cui le immagini sono essenzialmente i dipinti.

L'ambito di riferimento dell'immagine non si limita ad esser però solo quello di una generica produzione umana: la pittura infatti si distingue da tutti gli altri manufatti in virtù del proprio contenuto estetico. Il regno dell'immagine quindi nei Libri Carolini è il regno dell'arte figurativa.

L'attenzione verso il fenomeno artistico è un dato proprio della cultura dell'autore del testo, Teodulfo, come un passo dei Libri Carolini mostra con chiarezza: "Ecco si vede che esistono in gran numero le immagini, delle quali alcune sono composte coi colori, alcune fuse in oro o in argento, alcune scolpite nel legno dallo scalpello dello scultore, alcune incise nel marmo, alcune modellate nel gesso o nell'argilla" (LC I, 2).

In un contesto generale di estrema considerazione del fenomeno artistico, il merito principale dei Libri Carolini è allora quello di aver affermato che la produzione artistica che si esprime nell'immagine gode di una propria autonomia rispetto all'ambito della religione: religione ed arte sono due ambiti differenti, facendo ognuno riferimento a propri valori. In un passo Teodulfo spiega chiaramente questo concetto: " Dicono infatti che l'arte dei pittori sia pia, come se non goda con le altre arti mondane della comunione della pietà o dell'empietà. Infatti che cosa l'arte del pittore ha di più pietoso dell'arte di fabbri, scultori, fonditori, cesellatori, spaccapietre, falegnami, agricoltori o di altri artigiani? Infatti tutte le arti di cui abbiamo detto prima, che non possono essere apprese se non con l'esercizio, possono essere gestite in modo pio ed empio da parte di coloro da cui sono esercitate, né rientra la pietà o l'empietà in esse, ma negli uomini che di esse sono seguaci (...). Come infatti il ferro né viene detto empio, poiché con esso vengono uccisi gli uomini, né ugualmente pio, poiché con esso si fabbricano strumenti, coi quali vengono sanati anche i colpi delle spade e vengono protetti gli uomini e i medici provvedono alla salute umana, così anche l'arte dei pittori né è empia, poiché tramite essa vengono rappresentati fatti crudeli, né ugualmente pia, poiché vengono rappresentati fatti virtuosi" (LC III, 22).

Esiste un'autonomia formale dell'arte che prescinde dal contenuto che in essa viene rappresentato: come l'arte infatti può rappresentare fatti pii, così è possibile che avvenga il contrario. Poiché dell'arte è quindi possibile predicare sia che sia empia sia che non lo sia, il valore di carattere religioso si colloca al di fuori della norma stessa dell'arte.

La produzione artistica viene quindi paragonata da Teodulfo agli altri oggetti materiali: essi si possono prestare sia ad un utilizzo che apporti del bene all'uomo sia ad un uso che generi del male: come il ferro è utile se con esso si fabbricano strumenti utili per i medici, così, se usato per costruire spade, può divenire nocivo per l'uomo. Il prodotto artistico ha la medesima ambivalenza: come può essere utile a fini religiosi se la pittura ha carattere virtuoso, così diviene nocivo se rappresenta fatti empi.

I Libri Carolini non si limitano però solo ad affermare l'autonomia dell'arte dalla morale, ma in essi ci si prodiga nel segnalare lo specifico dell'ambito artistico, per cui l'arte, benché sia parte del mondo materiale, gode comunque di particolari prerogative che la differenziano da esso.

Il criterio che differenzia l'ambito artistico da quello semplicemente materiale è essenzialmente un criterio estetico. Nella produzione artistica esiste un scala di valori, che viene determinata dal criterio secondo cui la produzione artistica è bella o brutta: "Poiché le immagini esistono per lo più in tale maniera dall'ingegno degli autori, che talvolta sono ben fatte, talvolta brutte, qualche volta belle, talvolta anche orribili, alcune molto simili a ciò di cui sono immagine, alcune davvero poco somiglianti, alcune risplendenti per novità, alcune anche consumate dalla vecchiaia, bisogna chiedere, quali di esse sono più degne di onore, quelle che si sa che sono più belle o quelle più brutte?" (LC III, 16). In questo passo si inizia a delineare quale sia lo specifico della produzione artistica, che consiste nell'ingegno dell'autore della pittura. Il valore dell'arte non è quindi un valore della moralità, rispetto ala quale gode di una propria autonomia. Il valore del prodotto artistico si basa allora su un criterio estetico di bellezza, che dipende dall'abilità del pittore. Teodulfo indica alcune delle caratteristiche del buon pittore: innanzitutto deve comprendere (intelligere) la propria arte nella sua globalità; deve avere esperienza (experientia) del suo lavoro, cioè solo tramite la pratica può ambire a comporre belle opere; deve avere talento nella disposizione dei colori (conficiendorum colorum peritia) e conoscere i materiali con cui lavora (cognoscere vim materiae); inoltre, affinché sia un buon pittore, "deve invero cercare luoghi opportuni per l'esecuzione della propria opera e nella composizione di questa si occupi soltanto della bellezza dei colori e del riempimento dei contorni dell'opera" (PL II, 27). È importante inoltre che il pittore badi alla forma della composizione: la bellezza dell'opera non è condizionata solo dall'uso sapiente dei colori ma anche da una disposizione formale accurata delle parti che la compongono.

 

Il pittore è quindi ispirato dalla musa della propria arte e non, a differenza di quello che accadeva nella civiltà bizantina, dallo Spirito Santo. A volte si dava il caso che il pittore stesso non potesse leggere. Nella produzione della pittura murale in cui si raccontava per immagini il testo evangelico era normale che un religioso letterato affiancasse il pittore nella scelta dei soggetti da inserire nel ciclo pittorico. Al letterato erano affidati i compiti di selezionare il soggetto narrativo in cui emergesse nel modo più efficace il messaggio cristiano edificante, di redigere i tituli che avrebbero accompagnato le singole scene e di spiegare al pittore quale fosse il messaggio che nel modo più chiaro dovesse emergere dalla rappresentazione. Il ruolo del pittore era invece quello di applicare la sua abilità artistica nella composizione del dipinto il cui soggetto era stato delineato dal letterato.

Il culto

Nei Libri Carolini è possibile rintracciare una teoria in cui il culto viene regolamentato in modo differente rispetto alla sistemazione che ne era stata data nel Concilio di Nicea.

Il culto di adorazione può essere attribuito solo a Dio: "Dio onnipotente pose i molti segni che mostra ai mortali, che rese, con l'aiuto di alcuni oggetti, visibili e tangibili, poiché intendeva aiutare mediante l'aiuto delle cose sensibili la rozzezza e l'imperfezione degli uomini mortali e visibili, non con lo scopo di decretare che venisse celebrata l'adorazione di alcune cose materiali; infatti stabilì che lui solo dovesse essere adorato, lui solo venerato" (LC III, 25). Se Dio solo deve essere adorato, viene respinto il culto dell'immagine. Il dato essenziale è che l'immagine sia un mero oggetto materiale, e come tale non sia passibile di culto. Mentre alcuni altri oggetti materiali, come ad esempio le reliquie, possono rientrare nella sfera della spiritualità, in quanto furono a contatto o sono parti dei corpi dei Santi, l'immagine è semplicemente l'opera di un pittore, e come tale non può godere in nessun modo della prerogativa della santità.

Solo la croce, fra tutte le immagini, può essere destinataria di culto, in quanto, essendo simbolo stesso del Cristianesimo, porta in sé una forte carica di spiritualità, e in questo senso allude al trascendente. In quanto simbolo del Cristianesimo, la croce valica la definizione stessa di immagine. Nei Libri Carolini dunque il culto di venerazione - non di adorazione, che deve essere rivolto solo a Dio - è legittimo se viene tributato ad un oggetto che reca in sé una forte carica di spiritualità: le reliquie dei Santi, la croce. In questo insieme non possono essere incluse le immagini poiché esse sono mera materialità.

L'argomento di base dei Padri Niceni a favore del culto dell'immagine era stato coniato da Basilio di Cesarea, nel IV secolo: "L'onore tributato all'immagine passa al prototipo" (PG 32, col. 139). I Libri Carolini negano che questo passaggio dell'onore dall'immagine al prototipo possa avvenire: "Un argomento molto familiare ed utilizzato da coloro che si affaticano nell'adorazione delle immagini, è che credono e affermano che l'onore tributato all'immagine possa passare alla medesima forma di cui è immagine. Poi in che modo sia possibile che questo accada e se accada, non è provato da nessun ragionamento né approvato da testimonianze dei discorsi divini" (LC III, 16). I Libri Carolini colgono il nodo centrale dell'argomento del transitus degli Orientali: la sola garanzia che il culto dell'immagine sia culto del prototipo è costituita dall'intenzione della fede; ogni argomentazione razionale non è in grado di giustificarlo.

I Libri Carolini dunque offrono tipologie di culto differenti da quelle che erano state stabilite al secondo Concilio di Nicea. Il culto, inteso come atto di adorazione (anche se a volte colere e venerari sono utilizzati come sinonimi di adorare) può essere tributato solo a Dio. Un culto più contenuto può essere rivolto anche ad oggetti materiali ma con un forte contenuto spirituale, quali le reliquie dei santi e la croce. Le immagini, in quanto mere cose materiali, non possono essere oggetti di alcun culto, che le renderebbe al contrario idoli. Le immagini possono divenire dunque utili in chiave religiosa solo se utilizzate per rafforzare il ricordo dei fedeli.

Conclusione

Un dato saliente di tutta la civiltà carolingia fu il progetto di rinnovamento della tradizione cristiana, voluto e guidato soprattutto dall'élite intellettuale che gravitava attorno alla corte di Carlo Magno. Il re stesso volle attorno a sé i principali esponenti della cultura latina di quel periodo, affinché questo progetto di rinnovamento venisse compiuto ed eseguito.

Il progetto di rinnovamento trovò le proprie ragioni nella necessità di promuovere un programma culturale compiuto da attuare su tutte le regioni dell'impero.

Il programma di rinnovamento fu concepito innanzitutto come programma di riscoperta della produzione culturale precedente. Si privilegiarono i testi di autori cristiani dei secoli precedenti: Cassiodoro, Marziano Cappella, Isidoro da Siviglia e soprattutto Agostino, di cui si apprezzò in particolare il De Doctrina Christiana.

Il grande merito di questo programma di rinnovamento fu anche quello di aver riscoperto e divulgato la produzione culturale pagana: Alcuino fu il promotore della diffusione delle arti del trivium e del quadrivium, in quanto in questo progetto il curriculum enciclopedico viene ritenuto uno strumento tramite il quale è possibile ricercare Dio.

È notevole quindi come tutto il piano di rinnovamento sia stato sviluppato in base ad un preciso programma stilato a priori. In questo senso anche tutta la produzione artistica carolingia è arte di corte, perché venne guidata nei contenuti e commissionata dalla cerchia di Carlo Magno, e si protrasse in questa modalità ancora sotto i regni di Ludovico il Pio e Carlo il Calvo. Alcuino e i suoi discepoli a tavolino decidevano le modalità e i contenuti della produzione artistica che si sarebbero poi diffusi nell'impero: i Libri Carolini nacquero anche per questo scopo, per uniformare a livello imperiale una materia delicata e complessa come il culto delle immagini.

Nel progetto di rinnovamento dunque all'immagine stessa fu conferito un ruolo fondamentale. Il potere che l'immagine poteva avere sulla popolazione non sfuggiva sicuramente agli intellettuali della corte di Carlo Magno. Nel momento in cui si legittimò che la cultura del passato, una volta recuperata, potesse essere divulgata sia tramite il testo che l'immagine, ad entrambi i mezzi venne affidato il compito di comunicare il messaggio cristiano. L'aspetto edificante della storia poteva essere ricordato per mezzo sia della parola che dell'immagine.

Come però era stata sancita una differenza fra parola e immagine, così si imponeva che i due linguaggi avessero fruitori differenti: da un lato si sarebbe costituita una élite che sola conoscesse la lingua latina; dall'altro al resto della popolazione si sarebbe comunicato tramite il mezzo dell'immagine. La decisione imperiale di ripristinare su tutto l'impero un latino omogeneo perseguiva lo scopo di generare una frattura nella popolazione fra una piccola cerchia di litterati e una gran massa di illitterati, in cui il possesso della cultura sarebbe equivalso al possesso del potere.

I primi, cui la conoscenza della lingua latina garantiva la possibilità di accedere ad un orizzonte culturale più vasto, avevano il compito da un lato di portare avanti il programma di rinnovamento inaugurato da Carlo Magno, dall'altro di stabilire gli indirizzi educativi destinati al resto della popolazione. Ai litterati era quindi affidato il compito di decidere e controllare la comunicazione da destinare alla popolazione illetterata.

Il mezzo che si presentava più efficace per l'esecuzione di questo programma era costituito sicuramente dall'immagine, che godeva di tutte le caratteristiche adatte ad assolvere allo scopo. Innanzitutto la comunicazione tramite le immagini era in grado di raggiungere tutta la popolazione, nel momento in cui di immagini fossero state coperte le pareti dei luoghi in cui la popolazione si aggregava: le chiese. Inoltre la produzione di immagini poteva essere controllata dall'élite intellettuale, in modo da diffondere solo il contenuto che si sarebbe ritenuto opportuno. Poi l'immagine era intellegibile da parte di tutta la popolazione: l'interpretazione del contenuto conoscitivo offerto dall'immagine poteva essere semplice ed immediata per chiunque. Infine l'immagine, proprio per le sue intrinseche potenzialità, era in grado non solo di educare il popolo degli illetterati, ma anche di persuaderlo: l'aspetto retorico e la bellezza dell'immagine permettevano di raggiungere e convincere il popolo più facilmente.

I Libri Carolini divennero dunque il testo programmatico della fondazione di una civiltà dell'immagine, nella quale scopo dell'immagine non fosse tanto quello di istruire nella dottrina cristiana il popolo analfabeta dei fedeli, quanto quello di stimolare costantemente al ricordo del vero messaggio cristiano. Le immagini, che si dispiegavano sulle pareti delle chiese di tutto l'impero, sarebbero dovute divenire un memento costante della Verità rivolto alla quasi totalità della popolazione. L'immagine dunque nella civiltà carolingia assunse il ruolo di mezzo per la trasmissione e la conservazione della cultura del potere. Il potere dell'immagine promosse l'immagine del potere.

Amos Bianchi

luglio 1999


Seminario di filosofia dell'immagine

Le parole della filosofia, II, 1999

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